domenica 29 novembre 2015

QUANTI NOMI PUO' AVERE UNA CITTA'?


Ammiro molto chi riesce a correre sul tapis roulant per ore: a me dopo dieci minuti sale uno tsunami di noia e smetto più per quello che per la stanchezza. Rimanere sempre nello stesso punto dopo tutta quella fatica mi devasta.
Una delle rare volte che sono riuscita a resistere ben 20 minuti di fila senza cedimenti sul dannato attrezzo è stato un giorno di settembre del 2008, in cui pensavo a cosa scrivere per partecipare ad un concorso di racconti di viaggio. 
Sono arrivata a casa, l'ho scritto e l'ho inviato. Ed ho vinto una notte in un hotel a Venezia. 
Visto che allora non scrivevo il blog, ve lo propongo ora. 
Buona lettura! 

p.s. Sono guarita dall'abuso dei puntini di sospensione poco dopo la pubblicazione di questo testo. :D
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Quanti nomi può avere una città? Perché una città si chiama come una nazione? Città del Messico, DF, Messico. Le definizioni si confondono… Una settimana prima della partenza, mentre attendo il verde al semaforo, penso a cosa si prova a vivere in una città che è già un record di per sé: di persone, di pioggia, di terremoti, di nomi, di chilometri quadrati.


Il lunedì dopo guardo un semaforo verde e sono in Messico, nella capitale. Una flotta di taxi, maggioloni Volkswagen verdi e bianchi, romba e scatta, e l’aria diventa subito più sporca. Tossisco, mi giro: sono in Piazza Garibaldi. Le schiene dei mariachi sono allineate l’una accanto all’altra e li vedo mentre cantano e suonano, davanti ci sono i volti delle persone a cui è dedicata la canzone. Mogli commosse dai capelli scuri e dal trucco acceso, mariti con i capelli tinti e tirati indietro con il gel…. gli anni ’60 in Messico non sembrano mai passati.


In Messico c’è ombra: sotto l’enorme bandiera dello Zocalo le vite si intrecciano, talvolta si sfiorano. I turisti fotografano l’ammainabandiera, alcuni messicani protestano con cartelli dai toni forti, altri giocano a scacchi, altri ancora vendono palline colorate che rimbalzano e scappano per la piazza. Ognuno ha qualcosa da fare qui. Sono le cinque della sera, le cinco de la tarde, Federico Garcia Lorca avrebbe dedicato la sua poesia al temporale che ogni giorno ad Agosto, puntualissimo, si riversa sulla città? Il fatto è che il cielo è quasi sempre così grigio che al mattino pensi “pioverà”. Poi non piove e proprio quando credi che non succederà niente, scende giù acqua e ancora acqua. Fredda, violenta, fitta. Così fitta che temi che non finirà mai di cadere. Il rumore del temporale sulle lastre di latta che coprono il cortile del nostro hotel, (Guerriero 161 recita la saponetta accanto al lavabo) sembra voler demolire l’edificio. Poi tutto finisce. All’improvviso, proprio com’era cominciato.


L’uomo alla reception ha uno sguardo maya. O azteco. Non so, ma potrebbe essere un discendente di Montezuma. E’ barricato dietro un bancone, non dice niente spontaneamente, risponde poco e a gesti. Pare che si stia sempre chiedendo qualcosa. Forse parla con la Vergine di Guadalupe… La chiesa della Virgin de Guadalupe, ha come icona il manto della Madonna più sacra e venerata di tutta l’America Latina. E’ sospeso per aria, al di sotto c’è un tappeto scorrevole su cui si sale per vederlo, in transito, senza potersi fermare. Il tragitto durerà il tempo di una preghiera? Accanto c’è il vecchio santuario, che riesce nel miracolo di pendere da due lati (a destra e a sinistra) senza crollare. Un’impalcatura fittissima lo sostiene, ed entrando si ha l’impressione che se la terra tremasse in quel momento, tutto si trasformerebbe in polvere in mezzo minuto.


Al Museo Antropologico scopriamo che la città una volta era costruita sull’acqua: così la trovarono gli spagnoli. Perfettamente organizzata, galleggiante, strappata alla terra metro per metro. Ecco perché frana e si allaga: è costruita sull’argilla. Intanto i giorni passano, sulla metro, sui pullman, a piedi, con quelle distanze smisurate e quel traffico folle senza regole: dal centro strada è tollerato girare a destra e a sinistra, tagliando la strada alle macchine che viaggiano a lato.


Dalla Torre Latinoamericana, da cui si vede quasi per intero la sterminata capitale, chiamo una mia collega italiana che vive a Città del Messico. Riparto l’indomani mattina, non faccio in tempo ad incontrarla, però mi fa piacere sentirla al telefono. Risponde “Bueno?” e parla allegramente con il tono che hanno tutti gli italiani all’estero quando mascherano la nostalgia di casa. Le chiedo: “Come fai a vivere qui? A guidare l’auto in questo delirio?? Ogni volta che mi rispondono “ahorita” tremo perché non significa “ora” come pensavo io, ma può essere un minuto, un’ora o anche mai!”.

La risposta è che è una città dove esiste ancora la speranza: si viene a tentar fortuna, si vive con poco e la vita è allegra e triste come una canzone di Vicente Fernandez, il più famoso cantante ranchero Si può prendere in giro la morte, mettendo un vestito ad uno scheletro e chiamandola “la Catrina”. Il 2 novembre i cimiteri sono pieni di gente che passa la notte accanto alle tombe, a lume di candela e senza paura. I bambini mangiano teschi di cioccolato. In quale altro luogo sarebbe possibile? Città del Messico è una città in cui non mancano mai i sorrisi, a cui tutto c’è rimedio...e la vita non fa paura. E la morte nemmeno.


sabato 31 ottobre 2015

L'ARTE PERDUTA DI VIAGGIARE



“Per quanto viaggiamo in tutto il mondo per trovare ciò che è bello, dobbiamo portarlo con noi oppure non lo troveremo”

Per anni i miei report di viaggio hanno avuto quest’intestazione che ho sempre sentito profondamente vicina ai miei pensieri. L’ha scritta Ralph Waldo Emerson, un poeta e filosofo americano del XIX secolo. Era un’idealista: sosteneva l’abolizione della schiavitù (che allora negli USA non era un’idea popolarissima) ma era anche un viaggiatore che, durante un soggiorno in Europa, ha iniziato a pensare ad un nuovo concetto di spiritualità.
Cosa abbiamo in comune io e Waldo? Niente, a parte il fatto di essere del segno dei Gemelli e la frase in oggetto (lui l’ha scritta, io l’ho fatta mia).
Secondo me quella frase dice tutto: non troveremo mai ciò che stiamo cercando se non ci arriviamo pronti con qualcosa che è già dentro di noi, non vedremo nulla che non sia già nei nostri occhi.
La parentesi filosofica finisce qui, ma potrebbe ripresentarsi.

Viaggiando per lavoro e per passione, la domanda fondamentale che spesso mi faccio e faccio anche agli altri è “cos’è il viaggio”?
Il viaggio è solo una sequenza di momenti cronologici (preparazione, partenza, transito, arrivo e ritorno)?
Esiste il modo di imparare a viaggiare? E viaggiare può essere un’arte?
Le domande alla Marzullo alle quali mi darò risposta da sola sono finite, metto le cuffie come i concorrenti di Mike Bongiorno e rispondo:

Risposta numero uno: Il viaggio è il migliore maestro di vita del mondo.
Risposta numero due: No, c’è dell’altro.
Risposta numero tre: Secondo me sì, si può imparare a viaggiare.
Risposta numero quattro: Viaggiare è un’arte.

Tolgo le cuffie, sistemo i capelli e spiego perché.


  1. Cos’è il viaggio? il viaggio è il migliore maestro di vita del mondo.


E’ un insegnante molto severo, che se non hai studiato ti mette alla prova lo stesso e spesso non c’è modo di evitare o aggirare l’ostacolo, ma solo di affrontarlo. Le convinzioni e le idee vengono testate e se sono sbagliate si infrangono, talvolta anche dolorosamente. La misura del mondo non è più quella a cui la nostra quotidianità ci ha abituati e gli orizzonti si allargano.

  1. Il viaggio è solo una sequenza di momenti cronologici (preparazione, partenza, transito, arrivo e ritorno)?

Alcuni sentono il forte impulso di vagare per esplorare il mondo, detto anche Wanderlust (ad esempio io: da una vita e non voglio smettere). Altri invece si avvicinano al viaggio con dubbi e paure, che poi superano con l’esperienza. Viaggiare è qualcosa di complicato, molto più complesso di organizzare un itinerario o prenotare un volo low cost.
Se fosse una mera successione di azioni pratiche, basterebbe seguire una lista e spuntare le voci ad una ad una. Invece anche un viaggio perfetto in cui tutto va bene può rivelarsi deludente. Ci si può preparare molto o poco, ma non è quello che fa la differenza: la mente parte prima del corpo perché si crea delle aspettative. La più sfuggente credo che sia la felicità, che viene ricercata e desiderata. Poi si parte ed il momento del distacco è quello che è più destabilizzante, quello dove ansie e timori escono in superficie. Andare incontro alle novità ed ai cambiamenti non è facile. C’è poi il transito, ovvero lo spostamento, che oggi è breve, basta salire su un aereo e si può atterrare dall’altra parte del mondo in un paio di giorni al massimo facendo qualche scalo, quando fino al secolo scorso ci sarebbero voluti mesi per arrivare. La destinazione è il traguardo, il momento del confronto e della scoperta. Lì si gioca tutto e c'è poi il ritorno in cui il cerchio si chiude e si torna al punto di partenza.
Tutto qui? Non esiste secondo me una formula per rendere un viaggio indimenticabile, ma ci sono due cose, solo due semplicissime banalissime cose che possiamo portare con noi e che senza dubbio renderanno bello la nostra esperienza.
La gentilezza e l’empatia. Non mi stancherò mai di dire quanto sia importante essere gentili all’estero con gli altri, sia perché ai loro occhi rappresentiamo una nazione, ma perché siamo l’evidenza che barriere e stereotipi si possono superare. L’empatia è essenziale nei modi in cui ci si relaziona con le persone, l’abilità di mettersi anche per un secondo nei panni negli altri è quello che rende speciale non solo la giornata di chi incontrate, ma renderà magnifico anche il vostro viaggio.
Io ho poi una sorta di superstizione: mi piace aiutare gli altri in Italia perché spero che quando sarà il mio turno all’estero ci sia qualcuno disposto ad aiutare me. Una sorta di karma.

  1. Esiste il modo di imparare a viaggiare? Sì.

Si può quindi imparare a viaggiare come si impara a guidare una macchina? Sì.
Si impara con l’esperienza: affidandosi a chi ha viaggiato di più e poi trovando un proprio modo personale. Nessuno ci insegna a viaggiare come ci insegna a camminare, ma viaggiando si impara a riempire i vuoti dell’itinerario con ciò che veramente conta: le emozioni.
E qui torniamo al buon vecchio Waldo: se ci si porta dietro aggressività, rancore e i problemi, come ci si può aspettare di risolverli a centinaia o migliaia di km di distanza? E’ meglio lasciarli a casa, perché tanto saranno lì ad aspettarci al rientro.
La persona che si è a casa è quella che si porta in viaggio, ma è meglio partire leggeri, sia come bagagli sia come emozioni. Ansia, preoccupazioni inquietudine, se non li si abbandona al check- in lì ritroveremo insieme ai bagagli sul nastro trasportatore all’aeroporto di arrivo, se possibile ancora più pesanti di prima.

  1. Viaggiare può essere un’arte? Sì.

Per me è un’espressione unica del proprio essere. Proprio come si impara a disegnare o a scrivere o a suonare, poi è la creatività personale a dipingere un quadro, a scrivere un testo o a comporre una melodia. Anche se gli strumenti sono gli stessi (matita o pennelli, penna o computer, tasti o percussioni) è l’artista che in noi che fa la differenza.

Anche se sono un’ottimista per natura, purtroppo penso che l’arte di viaggiare sia perduta, o quasi. Si è smarrita. Viaggiare è diventato, in generale, un prodotto, una merce. Negli ultimi anni mi sembra che ci si dimentichi sempre più spesso di scoprire un nuovo mondo, anche quando ce l’abbiamo sotto gli occhi. Onestamente: quanti di voi stampano o rivedono tutti i video fatti durante le vacanze? Quasi nessuno, oppure non è la stessa cosa osservare con i propri occhi o vedere qualcosa attraverso il video di un telefono o una macchina fotografica. Mi sembra che si sia sempre meno aperti con le persone, forse perché siamo sempre più fortemente legati, tramite la tecnologia, a casa. Una volta si era irraggiungibili all’estero, ora invece tramite roaming e app sul telefono, non più. Ogni esperienza è fatta e condivisa, cotta e mangiata, anzi talvolta è mangiata (cioè condivisa) ancor prima di essere cotta ( è studiata, ma in realtà è finta perché non è stata davvero vissuta).

Io confesso sono una vittima del WIFI (di cui ammetto di essere fan all’estero: dal punto di vista organizzativo è una benedizione) ma il lato oscuro della connessione è non essere mai davvero dove sei, è un filo che ti lega a casa.

Concludendo, non so se sono “un’artista”, so che mi impegno moltissimo a far sì che tutto vada bene e che quando c’è qualche difficoltà sia superata, questo per il mio ruolo di tour leader.
Per quanto riguarda il mio viaggio, quello che va oltre la gestione dell’itinerario, cerco di portare con me qualcosa di bello ovunque io vada

sabato 3 ottobre 2015

L'IMPORTANZA DI DIRE "GRAZIE"




Vorrei sapere dire grazie in tutte le lingue del mondo. 

Per iniziare, ho deciso che ogni volta prima di partire devo imparare la traduzione di questa parola nella lingua del posto dove sto per andare, tanto so già che la userò. Magari per formalità, forse con riconoscenza, non credo per abitudine.

In questo modo so  dire grazie in molte lingue. Il numero esatto non lo so, ma non credo che sia importante. Credo invece che sia indispensabile scendere dall’aereo con un sorriso e un grazie nel cuore per ciò che si sta per incontrare.


Ho detto “shukran” in Yemen, il giorno della fine del Ramadan a tutti quelli che ci invitavano a mangiare con loro per festeggiare la fine del digiuno.

Ho detto “xie xie” in Cina, quando sono atterrata alle 3 di notte a Shanghai e non c’erano taxi, ad  un cinese gentile che non capiva una sola parola di quello che stavo dicendo, ma si è andato a cercare qualcuno che parlasse inglese che potesse aiutarmi.

Ho detto “amesegenallo” in amarico, ogni volta che mi hanno offerto una tazza di caffè in Etiopia, che ho adorato nonostante i pop corn che venivano offerti insieme.


E’ bello saper ringraziare, ma ancora di più poter comunicare e capirsi.


Con Maria, che mi ha ospitato a casa sua sull’isola di Amantani, è stato facile perché parlavamo spagnolo e ci capivamo abbastanza. Con lei condividevo una data: il compleanno. Stesso giorno, stesso mese, stesso anno. Abbiamo aperto gli occhi quasi anche nello stesso momento, io alle 13:45 in Italia, lei alle 6 del mattino in Perù.


Il destino ci ha fatte incontrare, quasi come se volesse farci confrontare le nostre vite.  Davanti ad una tazza di mate di coca, il tè usato per combattere il soroche (il mal di montagna che abbatte i turisti stremati dall’altitudine) Maria ed io ci siamo raccontate le nostre vite, molto diverse tra loro ma che alla fine si sono incrociate. Io avevo appena iniziato a viaggiare e le raccontavo del safari in  Tanzania e della visione di Petra in  Giordania. Lei, che in vita sua, aveva visto solo il lago Titicaca, non si era mai spinta oltre il suo luogo di nascita. Io avevo un passaporto nuovo da riempire e lei tre bocche da sfamare, i suoi figli Elvis, Jerry e Johnny, che a dispetto dei nomi così yankee erano vestiti con i coloratissimi vestiti tradizionali fatti di lana. 

Dopo aver bevuto il mate, siamo andate a vedere uno spettacolo organizzato per i visitatori. Non c’era illuminazione fuori dalla casa, abbiamo preso una scorciatoia tra i sassi. Io faticavo a starle dietro con le scarpe tecniche da montagna e lei con un bambino di tre anni sulle spalle e in ciabatte camminava sulle pietre senza nessuna esitazione, sfiorandole senza mai perdere l’equilibrio.


Dopo le danze, siamo tornate a casa sua: lei avanti come se camminasse per strada, io come se fossi sospesa su una corda. A casa non c’era la luce elettrica, quindi Maria ha acceso una candela e mi ha offerto un’altra tazza di mate. Le chiacchiere sono andate avanti per un’altra ora. Oltre la finestra, il lago si estendeva infinito e cupo, senza nemmeno una luce in lontananza. Dopo la buenas noches, sono andata a dormire. Di quella notte mi ricordo due cose: il freddo sotto le coperte pesantissime  e quella piccola luce sul tavolo che illuminava quel buio immenso fuori e dentro la casa di Maria.


Siamo venute al mondo lo stesso giorno, ma lontane l’una dall’altra. Nei suoi occhi per la prima volta ho visto la tranquillità di chi sta bene con se stesso, di chi ha ciò di cui sente di aver bisogno e non desidera avere di più. La serenità che non è collegata a denaro, oggetti o case. Una pace nello spirito che ho visto altre volte e che mi ha fatto capire che la felicità è raggiungibile ovunque, se desideri ciò che hai nel cuore.


lunedì 31 agosto 2015

YEMEN, DOVE IL TEMPO NON ESISTE

Una domanda che mi viene posta spesso è "Qual è il viaggio che ti è piaciuto di più?".
La risposta è lo Yemen.  E' stato un viaggio bellissimo, vissuto con entusiasmo, meraviglia e anche con una certa apprensione, irripetibile perché ad oggi (e credo per un po' di tempo) il paese non è accessibile al turismo.

Ai tempi avevo scritto un testo per la rivista di "Avventure nel Mondo". Di seguito c'è una parte di quel racconto di viaggio, come l'avevo vissuto io.
Buona lettura

Qatia (leggete e capirete)

"Yemen, Dicembre 2000




Quando ho iniziato a viaggiare tutto il mondo era a mia disposizione.


Talvolta però avevo la strana sensazione che non fossi io a scegliere dove andare, ma che fosse il viaggio che scegliesse me. Questo è capitato soprattutto per lo Yemen.


giovedì 16 luglio 2015

VIA CON VENTO A NEW YORK

“La visibilità è buona: 25 miglia”.
Così ci aveva rassicurato l’addetto alla biglietteria dell’Empire State Building.

Erano gli ultimi giorni di aprile, ero con il gruppo da un paio di giorni a New York e stavamo aspettando il momento giusto per vedere finalmente The Big Apple dall’alto.
L’unica cosa che non mi convinceva era il fatto che c’era pochissima coda. Eppure era quasi l’ora del tramonto, quindi si sarebbe visto quel magico momento dell’imbrunire in cui il sole scompare all’orizzonte e le luci iniziano ad accendersi in città, insomma uno di quegli istanti che il turista non vuole perdersi. 

Arrivati in alto, vediamo New York come l’abbiamo sempre vista in TV e al cinema. Uno strano effetto di déjà vu colpisce un po’ tutti. Poco dopo tutti veniamo colpiti da qualcos’altro, molto più duramente: girato l’angolo c’è una corrente gelida che probabilmente arriva direttamente dalla Groenlandia, alcuni giurano di aver sentito l’eco di antichi canti Inuit portati dal vento.
Imperterriti e incuranti del freddo, aspettiamo il tramonto. Dopo aver scattato circa  diecimila foto ricordo, decidiamo di scendere. La vista dall’alto è in ogni caso impagabile.

A cena decidiamo il programma della serata. Per la mia gioia ho parecchi partecipanti che amano la musica: la sera prima eravamo andati al Cafè Wha?” storico locale in cui hanno suonato Janis Joplin e Jimi Hendrix, quella sera decidiamo di andare a sentire jazz all’ “Arthur’s Tavern” altro locale storico di NY. Stasera canta una certa Sweet Georgia Brown. Se la serata rock si era conclusa con abbondanti drink e molta allegria, quella che avevamo appena cominciato si avviava ad essere molto movimentata. 

L’Arthur’s Tavern è un piccolo bar con pannelli in legno su Grove Street, nel West Village. Ovunque c’è qualcosa che ti sembra di aver già vissuto o probabilmente visto al cinema. Tra di noi non ci sono esperti di musica jazz, ma ci siamo detti “se non sentiamo del buon jazz qui a New York, dove potremmo sentirlo?”. La risposta è New Orleans, patria del jazz, ma visto che eravamo a New York abbiamo deciso che quello era il posto giusto. Quando arriviamo, prestissimo, non c’è praticamente nessuno. Sta suonando un quartetto jazz guidato da una giovane donna giapponese di nome Eri Yamamoto. Onestamente nessuno rimane impressionato. Quando finiscono, gli addetti smontano gli strumenti e cambiano la disposizione dei tavoli.

Mentre guardiamo il pittoresco arredamento del locale, tutto improntato alle memorabilia del passato (sbiadite gigantografie della vecchia New York, recensioni di concerti del 1958, e uno strano cartello  “No dancing”) entra, lenta come una nave nel porto, la signora Sweet Georgia Brown.
Ms Brown è una donna di colore, di età indefinibile e rilevabile credo solo dopo un esame con il carbonio 14, che avanza maestosa tra i tavoli (ecco perché li avevano spostati prima, altrimenti Georgia non avrebbe potuto fare il suo ingresso trionfale). Indossa un vestito nero su cui brillano lustrini e pailettes, in numero non inferiore alle stelle presenti nella Via Lattea.
Sweet Georgia Brown è in realtà il titolo di un brano classico del jazz scritto nel 1927, suonato anche da Louis Armstrong. Non a caso, la voluminosa signora si è scelta un nome d’arte che era già famoso e lei in qualche modo approfitta della popolarità.
Quando inizia a cantare, rimaniamo tutti ammaliati. Ha una voce calda, roca e potente. Riesce ad essere malinconica, triste, arrabbiata e dolce. Ogni tanto spalanca gli occhi e ci fa un po’ paura (siamo in seconda fila) e quando una turista le fa una foto con il flash, Ms. Brown prima le lancia uno sguardo che incenerirebbe l’intera Amazzonia, poi si gira mostrando le spalle al pubblico, si inchina e indicando il suo lato B dice “fotografami questo, stronza! ”. Il pubblico è in delirio.

Una partecipante è molto affascinata da Sweet Georgia, e inizia a parlare con un gentile ragazzo dall’aspetto delicato, che si dichiara fan scatenato della cantante e che è venuto in città da non si sa quale sperduto paesino del Midwest apposta per lei.
Tra una chiacchiera e l’altra lui dice anche che ha un CD della cantante e che se gli paga una birra glielo regala. Affare fatto.
Nel frattempo Georgia sta cantando la sua ultima canzone e scende dal palco per ricevere il tributo di lodi da parte dei suoi fans. Quando si avvicina a noi, nota il CD sul tavolo e ci guarda con occhi assassini. La partecipante prende il coraggio a due mani e alla fine dell’esibizione va dalla sempre più truce Georgia per chiedere un autografo sul CD. Lei non solo si rifiuta senza spiegazioni di firmarlo, ma addirittura glielo sequestra. Mi avvicino e racconto a Georgia (di Sweet non aveva più niente) in che modo eravamo venuti in possesso del CD. Lei  è rimasta in silenzio, per un tempo che mi è sembrato lunghissimo. In realtà era un vulcano che stava per esplodere: chiama il biondo ragazzo che aveva dato il CD alla partecipante e lo copre di  insulti. Riesco alla fine a capire cos’è successo. Il delicato biondino, appena Georgia era entrata in sala, aveva parlato con lei  e deve averle detto parole d’affetto e ammirazione e lei riconoscente gli aveva regalato un suo CD (non ancora in commercio) e l’aveva autografato. Il CD che era sul nostro tavolo non aveva l’autografo, quindi Georgia ha capito che quello che aveva comprato la partecipante era un CD che il giovane biondo le aveva sottratto dalla borsa.

Le scene che si susseguono velocemente sono: Furious Georgia Brown che tuona imprecazioni a tutta potenza, il ragazzo che viene preso dai buttafuori, lei che urla che chiamerà la polizia, io che ordino ai miei di sparpagliarci e di raggiungere  l’uscita ostentando indifferenza (non mi pare il caso di passare la serata al commissariato della NYPD, l'ho già visto in almeno quattro serie di telefilm). Quando siamo fuori, ci avviamo rapidi a prendere la metro e sentiamo una sirena che si avvicina.
A bordo dei vagoni della linea F che ci porterà in hotel, riviviamo quei momenti e ridiamo ripensando alle espressioni di Sweet Georgia imbestialita. Usciamo dalla metro e veniamo colpiti dalla stessa brezza gelata che ci aveva castigato in cima all'Empire State Building. Questa volta riconosciamo distintamente le parole che vengono portate dal vento: è Sweet Georgia Brown che urla le sue maledizioni al ladro.

Stay tuned!

(nella foto:  espressione di Sweet Georgia Brown quando è passata tra i tavoli e ha visto il CD rubato)


giovedì 9 luglio 2015

MODELLA E CIAMBELLA



Le ultime parole famose:

"Per l’appassionante racconto sul ritorno (titolo del post “Modella e Ciambella”) non cambiate canale. Giuro che lo scriverò, prima o poi."


Il destino era in ascolto e  ha deciso di mettere ogni sorta di ostacolo sul mio cammino, impedendomi di allietarvi  con il seguito del ritorno da Milano in treno. Sono passati  quasi tre mesi, in cui  ho pescato continuamente la carta "imprevisti " del Monopoly  quando in realtà avrei volentieri tirato i dadi  e saltato  avanti tre caselle senza passare dal via.

Torniamo a noi: come avete passato questi mesi senza di me? Vi immagino tutti ad inviare email a  Gianloreto Carbone di "Chi l'ha visto?", vi ringrazio commossa: ho saputo che quell'invidiosa della Sciarelli non ha voluto catalogare la mia assenza dal blog come un caso di presunta scomparsa.

Comunque sono tornata, quindi ricomincio esattamente dal punto in cui mi ero interrotta.
  
Dopo una giornata particolarmente densa, in cui avevo saltato il pranzo, ho deciso di prendere un cappuccino e poi una ciambella da mangiare con calma in treno. Un peccato di gola che ogni tanto mi concedo perché appaga tantissimo i miei sensi: prima addento il fritto zuccherato e già mi sento in estasi, poi il soffice dell'impasto mi soddisfa all'infinito. Oltre all'incalcolabile numero di calorie (pari ai miliardi del debito italiano dell'anno scorso), mangiare una ciambella se fa caldo ha anche l'utilità di effettuare un scrub allo zucchero sulle labbra, che dall'estetista costerebbe e invece qui è incluso del prezzo.

martedì 14 aprile 2015

ESSERE ZEN CON TRENITALIA (A/R). PRIMA PARTE: ANDATA



Ogni tanto mi tocca una trasferta a Milano e questa volta si preannuncia impegnativa.  Cerco quindi di predispormi all’ottimismo estremo e all’indifferenza verso tutto ciò che potrebbe turbarmi.

I miei buoni propositi di essere zen e distaccata vengono subito messi alla prova da Trenitalia. Perché gli amministratori delegati che si sono succeduti negli anni hanno riversato il loro odio nei confronti di chi deve prendere il treno e non può pianificarlo quattro mesi prima per usufruire delle loro offerte? A che serve fare la promozione  Milano - Roma a 17 euro se poi il relativo biglietto è più raro di quello dorato di Willy Wonka?

Salgo a Porta Susa, dove inizia la gara di sopravvivenza tra i pendolari: ogni mattina si alzano e sanno che dovranno correre più veloce di un altro pendolare per evitare di viaggiare in piedi fino a Milano. C’è gente che ha iniziato la carriera podistica così, e ora si allena sugli altopiani etiopi per correre la maratona di New York.

Gli unici posti che si trovano facilmente sono quelli standard, in cui spazio vitale è minimo. Nei posti a quattro dove si sta intorno al tavolino, il viaggio diventa  una battaglia a colpi di calci con il dirimpettaio per avere il diritto di stendere le gambe e di gomiti con il vicino a lato per conquistare il bracciolo in comune.  Nei viaggi lunghi si rischia di prendere più botte che in un incontro di Muay Thai.


Decido di puntare tutto sulla prima carrozza, poco frequentata perché abitata dalla temibile figura del capotreno, incubo di tutti i viaggiatori a sbafo.  Trovo posto quasi subito e mi adagio nel mio sedile. Noto con piacere che c’è una presa elettrica per ricaricare il telefono e penso che la giornata andrà bene.


Ho appena il tempo di formulare questo pensiero quando accanto a me si siede l’ Uomo Qualunque. Egli inizia ad agitarsi a Chivasso: forse sente che c’è la connessione 4G e automaticamente il vagone diventa il suo ufficio. Prima chiama i colleghi (dai quali è passato prima di andare in stazione) e comunica di essere in treno e ovviamente reperibile. L'Uomo Qualunque è indifferente alle occhiate di rimprovero degli altri passeggeri. E' in uno stato di trance come i veggenti di Medjugorje: lui è convinto di essere seduto alla sua scrivania. Man mano che ci avviciniamo a Milano, il mio vicino di posto (tra una gomitata e l’altra per il bracciolo) a Santhià ha già contattato tre clienti, a Vercelli ha richiamato in ufficio per controllare la situazione, a Novara va in bagno per ottimizzare i tempi  (non si può perdere tempo per la minzione quando si è in giro per lavoro), a Milano scende  per primo dal vagone con la faccia di chi conquisterà Wall Street.


Io invece ogni volta che arrivo alla stazione Centrale  scendo dal treno ridendo da sola, perché ripenso sempre alla scena in cui i fratelli Caponi, alias Totò e Peppino, arrivano dal Sud vestiti da "milanesi" con colbacco e cappotto in piena estate.
 
Mentre mi preparo per scendere, mi congratulo con me stessa per non aver strozzato a mani nude il mio molesto vicino. Il mio compiacimento viene interrotto quando noto con orrore che il mio telefono non si è caricato. La presa c’è, ma non è funzionante. Certi traumi sono duri da superare, per fortuna ho una batteria extra che purtroppo non basterà per tutta la giornata. Oltre il danno, la beffa. Io non ho usato il telefono ed è quasi scarico, mentre l'Uomo Qualunque ha già il cellulare attaccato all'orecchio. Sospetto che sia stato silenziosamente ricaricato dall'energia eolica derivante dal giramento di palle di tutti i passeggeri del treno. Energia che si è concentrata tutta su di lui, e il mio telefono non ne ha beneficiato.

Anubi, quando peserai l’anima degli amministratori delegati di Trenitalia (873mila euro di stipendio nel 2012) ricordati di aggiungere sulla bilancia un caricabatterie di una tonnellata. Grazie.


Per l’appassionante racconto sul ritorno (titolo del post “Modella e Ciambella”) non cambiate canale. Giuro che lo scriverò, prima o poi.



(nella foto, ex pendolari tra Torino e Milano impegnati nella finale dei 100 metri alle Olimpiadi di Londra 2012)



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