sabato 3 ottobre 2015

L'IMPORTANZA DI DIRE "GRAZIE"




Vorrei sapere dire grazie in tutte le lingue del mondo. 

Per iniziare, ho deciso che ogni volta prima di partire devo imparare la traduzione di questa parola nella lingua del posto dove sto per andare, tanto so già che la userò. Magari per formalità, forse con riconoscenza, non credo per abitudine.

In questo modo so  dire grazie in molte lingue. Il numero esatto non lo so, ma non credo che sia importante. Credo invece che sia indispensabile scendere dall’aereo con un sorriso e un grazie nel cuore per ciò che si sta per incontrare.


Ho detto “shukran” in Yemen, il giorno della fine del Ramadan a tutti quelli che ci invitavano a mangiare con loro per festeggiare la fine del digiuno.

Ho detto “xie xie” in Cina, quando sono atterrata alle 3 di notte a Shanghai e non c’erano taxi, ad  un cinese gentile che non capiva una sola parola di quello che stavo dicendo, ma si è andato a cercare qualcuno che parlasse inglese che potesse aiutarmi.

Ho detto “amesegenallo” in amarico, ogni volta che mi hanno offerto una tazza di caffè in Etiopia, che ho adorato nonostante i pop corn che venivano offerti insieme.


E’ bello saper ringraziare, ma ancora di più poter comunicare e capirsi.


Con Maria, che mi ha ospitato a casa sua sull’isola di Amantani, è stato facile perché parlavamo spagnolo e ci capivamo abbastanza. Con lei condividevo una data: il compleanno. Stesso giorno, stesso mese, stesso anno. Abbiamo aperto gli occhi quasi anche nello stesso momento, io alle 13:45 in Italia, lei alle 6 del mattino in Perù.


Il destino ci ha fatte incontrare, quasi come se volesse farci confrontare le nostre vite.  Davanti ad una tazza di mate di coca, il tè usato per combattere il soroche (il mal di montagna che abbatte i turisti stremati dall’altitudine) Maria ed io ci siamo raccontate le nostre vite, molto diverse tra loro ma che alla fine si sono incrociate. Io avevo appena iniziato a viaggiare e le raccontavo del safari in  Tanzania e della visione di Petra in  Giordania. Lei, che in vita sua, aveva visto solo il lago Titicaca, non si era mai spinta oltre il suo luogo di nascita. Io avevo un passaporto nuovo da riempire e lei tre bocche da sfamare, i suoi figli Elvis, Jerry e Johnny, che a dispetto dei nomi così yankee erano vestiti con i coloratissimi vestiti tradizionali fatti di lana. 

Dopo aver bevuto il mate, siamo andate a vedere uno spettacolo organizzato per i visitatori. Non c’era illuminazione fuori dalla casa, abbiamo preso una scorciatoia tra i sassi. Io faticavo a starle dietro con le scarpe tecniche da montagna e lei con un bambino di tre anni sulle spalle e in ciabatte camminava sulle pietre senza nessuna esitazione, sfiorandole senza mai perdere l’equilibrio.


Dopo le danze, siamo tornate a casa sua: lei avanti come se camminasse per strada, io come se fossi sospesa su una corda. A casa non c’era la luce elettrica, quindi Maria ha acceso una candela e mi ha offerto un’altra tazza di mate. Le chiacchiere sono andate avanti per un’altra ora. Oltre la finestra, il lago si estendeva infinito e cupo, senza nemmeno una luce in lontananza. Dopo la buenas noches, sono andata a dormire. Di quella notte mi ricordo due cose: il freddo sotto le coperte pesantissime  e quella piccola luce sul tavolo che illuminava quel buio immenso fuori e dentro la casa di Maria.


Siamo venute al mondo lo stesso giorno, ma lontane l’una dall’altra. Nei suoi occhi per la prima volta ho visto la tranquillità di chi sta bene con se stesso, di chi ha ciò di cui sente di aver bisogno e non desidera avere di più. La serenità che non è collegata a denaro, oggetti o case. Una pace nello spirito che ho visto altre volte e che mi ha fatto capire che la felicità è raggiungibile ovunque, se desideri ciò che hai nel cuore.


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