sabato 31 ottobre 2015

L'ARTE PERDUTA DI VIAGGIARE



“Per quanto viaggiamo in tutto il mondo per trovare ciò che è bello, dobbiamo portarlo con noi oppure non lo troveremo”

Per anni i miei report di viaggio hanno avuto quest’intestazione che ho sempre sentito profondamente vicina ai miei pensieri. L’ha scritta Ralph Waldo Emerson, un poeta e filosofo americano del XIX secolo. Era un’idealista: sosteneva l’abolizione della schiavitù (che allora negli USA non era un’idea popolarissima) ma era anche un viaggiatore che, durante un soggiorno in Europa, ha iniziato a pensare ad un nuovo concetto di spiritualità.
Cosa abbiamo in comune io e Waldo? Niente, a parte il fatto di essere del segno dei Gemelli e la frase in oggetto (lui l’ha scritta, io l’ho fatta mia).
Secondo me quella frase dice tutto: non troveremo mai ciò che stiamo cercando se non ci arriviamo pronti con qualcosa che è già dentro di noi, non vedremo nulla che non sia già nei nostri occhi.
La parentesi filosofica finisce qui, ma potrebbe ripresentarsi.

Viaggiando per lavoro e per passione, la domanda fondamentale che spesso mi faccio e faccio anche agli altri è “cos’è il viaggio”?
Il viaggio è solo una sequenza di momenti cronologici (preparazione, partenza, transito, arrivo e ritorno)?
Esiste il modo di imparare a viaggiare? E viaggiare può essere un’arte?
Le domande alla Marzullo alle quali mi darò risposta da sola sono finite, metto le cuffie come i concorrenti di Mike Bongiorno e rispondo:

Risposta numero uno: Il viaggio è il migliore maestro di vita del mondo.
Risposta numero due: No, c’è dell’altro.
Risposta numero tre: Secondo me sì, si può imparare a viaggiare.
Risposta numero quattro: Viaggiare è un’arte.

Tolgo le cuffie, sistemo i capelli e spiego perché.


  1. Cos’è il viaggio? il viaggio è il migliore maestro di vita del mondo.


E’ un insegnante molto severo, che se non hai studiato ti mette alla prova lo stesso e spesso non c’è modo di evitare o aggirare l’ostacolo, ma solo di affrontarlo. Le convinzioni e le idee vengono testate e se sono sbagliate si infrangono, talvolta anche dolorosamente. La misura del mondo non è più quella a cui la nostra quotidianità ci ha abituati e gli orizzonti si allargano.

  1. Il viaggio è solo una sequenza di momenti cronologici (preparazione, partenza, transito, arrivo e ritorno)?

Alcuni sentono il forte impulso di vagare per esplorare il mondo, detto anche Wanderlust (ad esempio io: da una vita e non voglio smettere). Altri invece si avvicinano al viaggio con dubbi e paure, che poi superano con l’esperienza. Viaggiare è qualcosa di complicato, molto più complesso di organizzare un itinerario o prenotare un volo low cost.
Se fosse una mera successione di azioni pratiche, basterebbe seguire una lista e spuntare le voci ad una ad una. Invece anche un viaggio perfetto in cui tutto va bene può rivelarsi deludente. Ci si può preparare molto o poco, ma non è quello che fa la differenza: la mente parte prima del corpo perché si crea delle aspettative. La più sfuggente credo che sia la felicità, che viene ricercata e desiderata. Poi si parte ed il momento del distacco è quello che è più destabilizzante, quello dove ansie e timori escono in superficie. Andare incontro alle novità ed ai cambiamenti non è facile. C’è poi il transito, ovvero lo spostamento, che oggi è breve, basta salire su un aereo e si può atterrare dall’altra parte del mondo in un paio di giorni al massimo facendo qualche scalo, quando fino al secolo scorso ci sarebbero voluti mesi per arrivare. La destinazione è il traguardo, il momento del confronto e della scoperta. Lì si gioca tutto e c'è poi il ritorno in cui il cerchio si chiude e si torna al punto di partenza.
Tutto qui? Non esiste secondo me una formula per rendere un viaggio indimenticabile, ma ci sono due cose, solo due semplicissime banalissime cose che possiamo portare con noi e che senza dubbio renderanno bello la nostra esperienza.
La gentilezza e l’empatia. Non mi stancherò mai di dire quanto sia importante essere gentili all’estero con gli altri, sia perché ai loro occhi rappresentiamo una nazione, ma perché siamo l’evidenza che barriere e stereotipi si possono superare. L’empatia è essenziale nei modi in cui ci si relaziona con le persone, l’abilità di mettersi anche per un secondo nei panni negli altri è quello che rende speciale non solo la giornata di chi incontrate, ma renderà magnifico anche il vostro viaggio.
Io ho poi una sorta di superstizione: mi piace aiutare gli altri in Italia perché spero che quando sarà il mio turno all’estero ci sia qualcuno disposto ad aiutare me. Una sorta di karma.

  1. Esiste il modo di imparare a viaggiare? Sì.

Si può quindi imparare a viaggiare come si impara a guidare una macchina? Sì.
Si impara con l’esperienza: affidandosi a chi ha viaggiato di più e poi trovando un proprio modo personale. Nessuno ci insegna a viaggiare come ci insegna a camminare, ma viaggiando si impara a riempire i vuoti dell’itinerario con ciò che veramente conta: le emozioni.
E qui torniamo al buon vecchio Waldo: se ci si porta dietro aggressività, rancore e i problemi, come ci si può aspettare di risolverli a centinaia o migliaia di km di distanza? E’ meglio lasciarli a casa, perché tanto saranno lì ad aspettarci al rientro.
La persona che si è a casa è quella che si porta in viaggio, ma è meglio partire leggeri, sia come bagagli sia come emozioni. Ansia, preoccupazioni inquietudine, se non li si abbandona al check- in lì ritroveremo insieme ai bagagli sul nastro trasportatore all’aeroporto di arrivo, se possibile ancora più pesanti di prima.

  1. Viaggiare può essere un’arte? Sì.

Per me è un’espressione unica del proprio essere. Proprio come si impara a disegnare o a scrivere o a suonare, poi è la creatività personale a dipingere un quadro, a scrivere un testo o a comporre una melodia. Anche se gli strumenti sono gli stessi (matita o pennelli, penna o computer, tasti o percussioni) è l’artista che in noi che fa la differenza.

Anche se sono un’ottimista per natura, purtroppo penso che l’arte di viaggiare sia perduta, o quasi. Si è smarrita. Viaggiare è diventato, in generale, un prodotto, una merce. Negli ultimi anni mi sembra che ci si dimentichi sempre più spesso di scoprire un nuovo mondo, anche quando ce l’abbiamo sotto gli occhi. Onestamente: quanti di voi stampano o rivedono tutti i video fatti durante le vacanze? Quasi nessuno, oppure non è la stessa cosa osservare con i propri occhi o vedere qualcosa attraverso il video di un telefono o una macchina fotografica. Mi sembra che si sia sempre meno aperti con le persone, forse perché siamo sempre più fortemente legati, tramite la tecnologia, a casa. Una volta si era irraggiungibili all’estero, ora invece tramite roaming e app sul telefono, non più. Ogni esperienza è fatta e condivisa, cotta e mangiata, anzi talvolta è mangiata (cioè condivisa) ancor prima di essere cotta ( è studiata, ma in realtà è finta perché non è stata davvero vissuta).

Io confesso sono una vittima del WIFI (di cui ammetto di essere fan all’estero: dal punto di vista organizzativo è una benedizione) ma il lato oscuro della connessione è non essere mai davvero dove sei, è un filo che ti lega a casa.

Concludendo, non so se sono “un’artista”, so che mi impegno moltissimo a far sì che tutto vada bene e che quando c’è qualche difficoltà sia superata, questo per il mio ruolo di tour leader.
Per quanto riguarda il mio viaggio, quello che va oltre la gestione dell’itinerario, cerco di portare con me qualcosa di bello ovunque io vada

sabato 3 ottobre 2015

L'IMPORTANZA DI DIRE "GRAZIE"




Vorrei sapere dire grazie in tutte le lingue del mondo. 

Per iniziare, ho deciso che ogni volta prima di partire devo imparare la traduzione di questa parola nella lingua del posto dove sto per andare, tanto so già che la userò. Magari per formalità, forse con riconoscenza, non credo per abitudine.

In questo modo so  dire grazie in molte lingue. Il numero esatto non lo so, ma non credo che sia importante. Credo invece che sia indispensabile scendere dall’aereo con un sorriso e un grazie nel cuore per ciò che si sta per incontrare.


Ho detto “shukran” in Yemen, il giorno della fine del Ramadan a tutti quelli che ci invitavano a mangiare con loro per festeggiare la fine del digiuno.

Ho detto “xie xie” in Cina, quando sono atterrata alle 3 di notte a Shanghai e non c’erano taxi, ad  un cinese gentile che non capiva una sola parola di quello che stavo dicendo, ma si è andato a cercare qualcuno che parlasse inglese che potesse aiutarmi.

Ho detto “amesegenallo” in amarico, ogni volta che mi hanno offerto una tazza di caffè in Etiopia, che ho adorato nonostante i pop corn che venivano offerti insieme.


E’ bello saper ringraziare, ma ancora di più poter comunicare e capirsi.


Con Maria, che mi ha ospitato a casa sua sull’isola di Amantani, è stato facile perché parlavamo spagnolo e ci capivamo abbastanza. Con lei condividevo una data: il compleanno. Stesso giorno, stesso mese, stesso anno. Abbiamo aperto gli occhi quasi anche nello stesso momento, io alle 13:45 in Italia, lei alle 6 del mattino in Perù.


Il destino ci ha fatte incontrare, quasi come se volesse farci confrontare le nostre vite.  Davanti ad una tazza di mate di coca, il tè usato per combattere il soroche (il mal di montagna che abbatte i turisti stremati dall’altitudine) Maria ed io ci siamo raccontate le nostre vite, molto diverse tra loro ma che alla fine si sono incrociate. Io avevo appena iniziato a viaggiare e le raccontavo del safari in  Tanzania e della visione di Petra in  Giordania. Lei, che in vita sua, aveva visto solo il lago Titicaca, non si era mai spinta oltre il suo luogo di nascita. Io avevo un passaporto nuovo da riempire e lei tre bocche da sfamare, i suoi figli Elvis, Jerry e Johnny, che a dispetto dei nomi così yankee erano vestiti con i coloratissimi vestiti tradizionali fatti di lana. 

Dopo aver bevuto il mate, siamo andate a vedere uno spettacolo organizzato per i visitatori. Non c’era illuminazione fuori dalla casa, abbiamo preso una scorciatoia tra i sassi. Io faticavo a starle dietro con le scarpe tecniche da montagna e lei con un bambino di tre anni sulle spalle e in ciabatte camminava sulle pietre senza nessuna esitazione, sfiorandole senza mai perdere l’equilibrio.


Dopo le danze, siamo tornate a casa sua: lei avanti come se camminasse per strada, io come se fossi sospesa su una corda. A casa non c’era la luce elettrica, quindi Maria ha acceso una candela e mi ha offerto un’altra tazza di mate. Le chiacchiere sono andate avanti per un’altra ora. Oltre la finestra, il lago si estendeva infinito e cupo, senza nemmeno una luce in lontananza. Dopo la buenas noches, sono andata a dormire. Di quella notte mi ricordo due cose: il freddo sotto le coperte pesantissime  e quella piccola luce sul tavolo che illuminava quel buio immenso fuori e dentro la casa di Maria.


Siamo venute al mondo lo stesso giorno, ma lontane l’una dall’altra. Nei suoi occhi per la prima volta ho visto la tranquillità di chi sta bene con se stesso, di chi ha ciò di cui sente di aver bisogno e non desidera avere di più. La serenità che non è collegata a denaro, oggetti o case. Una pace nello spirito che ho visto altre volte e che mi ha fatto capire che la felicità è raggiungibile ovunque, se desideri ciò che hai nel cuore.


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