Ammiro molto chi riesce a correre sul tapis roulant per ore: a me dopo dieci minuti sale uno tsunami di noia e smetto più per quello che per la stanchezza. Rimanere sempre nello stesso punto dopo tutta quella fatica mi devasta.
Una delle rare volte che sono riuscita a resistere ben 20 minuti di fila senza cedimenti sul dannato attrezzo è stato un giorno di settembre del 2008, in cui pensavo a cosa scrivere per partecipare ad un concorso di racconti di viaggio.
Sono arrivata a casa, l'ho scritto e l'ho inviato. Ed ho vinto una notte in un hotel a Venezia.
Visto che allora non scrivevo il blog, ve lo propongo ora.
Buona lettura!
p.s. Sono guarita dall'abuso dei puntini di sospensione poco dopo la pubblicazione di questo testo. :D
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Quanti nomi può avere una città? Perché una città
si chiama come una nazione? Città del
Messico, DF, Messico. Le definizioni si confondono… Una settimana prima
della partenza, mentre attendo il verde al semaforo, penso a cosa si prova a
vivere in una città che è già un record di per sé: di persone, di pioggia, di
terremoti, di nomi, di chilometri quadrati.
Il lunedì dopo guardo un semaforo verde e sono in
Messico, nella
capitale. Una flotta di taxi, maggioloni Volkswagen verdi e bianchi, romba e
scatta, e l’aria diventa subito più sporca. Tossisco, mi giro: sono in Piazza
Garibaldi. Le schiene dei mariachi sono allineate l’una accanto all’altra e li
vedo mentre cantano e suonano, davanti ci sono i volti delle persone a cui è
dedicata la canzone. Mogli commosse dai capelli scuri e dal trucco acceso,
mariti con i capelli tinti e tirati indietro con il gel…. gli anni ’60 in
Messico non sembrano mai passati.
In Messico c’è ombra: sotto l’enorme bandiera
dello Zocalo le vite si intrecciano, talvolta si sfiorano. I turisti
fotografano l’ammainabandiera, alcuni messicani protestano con cartelli dai
toni forti, altri giocano a scacchi, altri ancora vendono palline colorate che
rimbalzano e scappano per la piazza. Ognuno ha qualcosa da fare qui. Sono le cinque
della sera, le cinco de la tarde, Federico Garcia Lorca avrebbe dedicato la sua
poesia al temporale che ogni giorno ad Agosto, puntualissimo, si riversa sulla
città? Il fatto è che il cielo è quasi sempre così grigio che al mattino pensi
“pioverà”. Poi non piove e proprio quando credi che non succederà niente,
scende giù acqua e ancora acqua. Fredda, violenta, fitta. Così fitta che temi
che non finirà mai di cadere. Il rumore del temporale sulle lastre di latta che
coprono il cortile del nostro hotel, (Guerriero 161 recita la saponetta accanto
al lavabo) sembra voler demolire l’edificio. Poi tutto finisce. All’improvviso,
proprio com’era cominciato.
L’uomo alla reception ha uno sguardo maya. O
azteco. Non so, ma potrebbe essere un discendente di Montezuma. E’ barricato
dietro un bancone, non dice niente spontaneamente, risponde poco e a gesti.
Pare che si stia sempre chiedendo qualcosa. Forse parla con la Vergine di
Guadalupe… La chiesa della Virgin de Guadalupe, ha come icona il manto della
Madonna più sacra e venerata di tutta l’America Latina. E’ sospeso per aria, al
di sotto c’è un tappeto scorrevole su cui si sale per vederlo, in transito,
senza potersi fermare. Il tragitto durerà il tempo di una preghiera? Accanto
c’è il vecchio santuario, che riesce nel miracolo di pendere da due lati (a
destra e a sinistra) senza crollare. Un’impalcatura fittissima lo sostiene, ed
entrando si ha l’impressione che se la terra tremasse in quel momento, tutto si
trasformerebbe in polvere in mezzo minuto.
Al Museo Antropologico scopriamo che la città una
volta era costruita sull’acqua: così la trovarono gli spagnoli. Perfettamente
organizzata, galleggiante, strappata alla terra metro per metro. Ecco perché
frana e si allaga: è costruita sull’argilla. Intanto i giorni passano, sulla
metro, sui pullman, a piedi, con quelle distanze smisurate e quel traffico
folle senza regole: dal centro strada è tollerato girare a destra e a sinistra,
tagliando la strada alle macchine che viaggiano a lato.
Dalla Torre Latinoamericana, da cui si vede quasi
per intero la sterminata capitale, chiamo una mia collega italiana che vive a
Città del Messico. Riparto l’indomani mattina, non faccio in tempo ad
incontrarla, però mi fa piacere sentirla al telefono. Risponde “Bueno?” e parla
allegramente con il tono che hanno tutti gli italiani all’estero quando
mascherano la nostalgia di casa. Le chiedo: “Come fai a vivere qui? A guidare
l’auto in questo delirio?? Ogni volta che mi rispondono “ahorita” tremo perché
non significa “ora” come pensavo io, ma può essere un minuto, un’ora o anche
mai!”.
La risposta è che è una città dove esiste ancora
la speranza: si viene a tentar fortuna, si vive con poco e la vita è allegra e
triste come una canzone di Vicente Fernandez, il più famoso cantante ranchero
Si può prendere in giro la morte, mettendo un vestito ad uno scheletro e
chiamandola “la Catrina”. Il 2 novembre i cimiteri sono pieni di gente che passa la notte accanto alle tombe, a
lume di candela e senza paura. I bambini
mangiano teschi di cioccolato. In quale altro luogo sarebbe possibile? Città
del Messico è una città in cui non mancano mai i sorrisi, a cui tutto c’è
rimedio...e la vita non fa paura. E la morte nemmeno.